di Anna Felici

Fui costretto a guardarla negli occhi.

Mi degnai quindi di alzare il viso, permisi al mio sguardo di incontrare il suo, ancora una volta. Pregando non fosse l’ultima. Pregando di rivederla, un giorno. Quando in un mondo che sceglie chi può essere amato e chi no, io non mi troverò tra chi all’amore deve correrci appresso, tra chi con l’amore ci gioca a nascondino, e purtroppo, perde tutte le volte. In un mondo che sceglie chi può essere amato e chi no, io vorrò essere tra quelli a cui l’amore sussurra all’orecchio, tra quelli che sentono l’anima di un altro, la propria. Quelli che dell’amore ne sentono il brivido persino la notte, quando il mondo intero dorme ma l’amore no, perché si sa, l’amore non dorme mai.

Simone Cattellini, questo è il mio nome, il che non descrive la mia identità, poiché noi tutti, in quanto esseri umani, abbiamo un’anima, un cuore che pulsa, e che forse, ho imparato ad ascoltare troppo tardi.

Si dice che la mente sia la sede dell’ingegno e arte del pensiero, sono balle. La mente è prigione per la nostra anima, che per tutta la vita, cerca di farsi sentire, ma non si può alzare il volume della sua voce se prima non si regola quella della mente. Perciò abbassa quella rotella, girala, staccala. Fai in modo che il razionale non sovrasti l’irrazionale, e che il sistematico non soffochi l’amore, mai.

***

Era giugno del 2006. Compivo diciassette anni. E nonostante quella mattina i raggi del sole si facessero sentire in quella che era la mia camera, penetrando dalla finestra, e abbracciando le mie bianche lenzuola, io mi stavo congelando. Così afferrai un angolo della coperta e lo portai a me. Ci infilai il viso sotto, ero completamente coperto, e quasi facevo fatica a respirare.

Bussarono. Era mia madre. Mi tirai via le coperte, e lei entrò. Era gioiosa e vestiva un abitino corto, color lilla, con qualche fiore ricamato in bianco. Ne andava fiera, si vedeva da come lo portava. Ci sorrideva dentro mentre mi guardava elencandomi cosa aveva cucinato quella mattina.

Sbuffai. Ma lei non ci rimase male, quasi ignorò quella mia reazione. Si avvicinò ancor di più e mi portò una mano sul viso.

Ho fatto persino le lasagne. Le ho cotte come piacciono a te, hanno quel contorno leggermente scrocchiarello, ma sono morbide

Sbuffai di nuovo.

Giuro Simone, sono morbide.

Scossi la testa. Non me ne importava nulla delle lasagne o di qualunque altra stupidaggine avesse cucinato quella donna dall’abito corto seduta sul mio letto. Le chiesi di uscire borbottando qualche breve parola che faceva fatica anche solo ad uscire dalla mia bocca e mettersi in riga con le altre.

Va bene, se questo è quello che vuoi, vado, ma ti aspetto di sotto

Passò una mezz’oretta prima che lei mi vedesse scendere le scale. Indossavo le stesse cose con le quali avevo dormito, ed i capelli erano ancora in disordine, qualche riccio mi cercava di accarezzare la fronte, ma io li tiravo sempre su. Mi infastidivano e pregavo costantemente di averli lisci. Di svegliarmi un domani, con dei capelli soffici e dritti. Nessun riccio, nessuno che voleva accarezzarmi la fronte.

Mi spieghi perché ce l’hai con questi capelli?

Quei ricci mi ricordavano lei, ecco cosa mi infastidiva. Lei li aveva più scuri dei miei, erano quasi neri, e li curava, sempre. Non c’era giorno in cui mia madre non avesse dei bei capelli, eccome se questo mi dava fastidio.

Federico ci scherzava sempre su, mi chiedeva come fosse possibile che quella donna non avesse mai qualcosa fuori posto. Eppure lo aveva, certo se aveva qualche cosa fuori posto, solo che non c’entrava nulla con i fiori ricamati sull’abito, o con i ricci curati.

Lei si prendeva tutto di me. Mi mangiava l’anima, e mi consumava la vita. Ma non avevo avuto il coraggio di dirglielo, mai.

Quando smetterai di avercela con me? – mi chiese, mentre io mangiavo velocemente qualche fetta biscottata.
Quando mi dirai chi c’è su quel foglio.
Ne abbiamo parlato così tante volte, dai.

Non mi avrebbe detto nulla, lo sapevo. Era inutile continuare a farle domande, quella donna non avrebbe fatto uscire una sola parola in più delle solite su quel foglio.

Cosi, non le risposi più. Neanche avevo fatto in tempo a farmi venire la voglia di parlare con lei, che già era sparita. Non avevo mai voglia di parlarle, a dirla tutta. E le poche volte che conversavamo era per parlare di quel foglio. Solo ed unicamente di quel foglio.

Federico ce l’aveva un po’ con me per questo. Mi ripeteva che mia madre mi voleva bene, e che dovevo iniziare ad amarla un po’ di più. Amarla? Odiavo quel verbo. Odiavo amare.

Ma più di tutto, odiavo essere amato.

Mentre mandavo giù un bicchiere d’acqua, suonarono al citofono. Andai ad aprire.

Auguri – disse Fede mentre mi diede una pacca sulla spalla. Non mi abbracciò.

Odiavo essere abbracciato. Accennai un sorriso perché anche dalle più piccole cose capivo quanto lui sapesse di me.

Quel ragazzo mi conosceva a pieno. L’unica cosa che non sapeva era chi c’era scritto su quel foglio, ma non gliene facevo di certo una colpa. Mamma era l’unica a sapere il nome sul pezzo di carta.

Lo feci entrare e mi seguì fino in camera mia.

Parlammo di tante cose. Ma più di tutto parlammo di mia madre. Parlavamo sempre di mia madre.

Le manca tuo padre

Gli chiesi come faceva a saperlo ma lui fece spallucce

Lo so e basta – mi disse

Odiavo non sapere. Avevo solo il desiderio di essere a conoscenza dell’amore della mia vita. Volevo sapere il suo nome, e da lì, sapere tutto di lei. Innamorarmi di lei, perdutamente.

Mia madre però, mi diceva sempre le stesse cose. Le regole in quella casa erano due.

Non dovevo parlare della morte di papà, per nulla al mondo, e non dovevo, assolutamente, leggere il nome sul foglio che diedero a mamma il giorno della mia nascita.

Te hai Lucia, non puoi capire – sbuffai al mio amico, perché lui, nonostante cercasse di aiutarmi, non avrebbe mai potuto capire.

Lucia era la sua ragazza, ed ovviamente, era il nome scritto sul foglio.

Federico, come tutti, sapeva chi era la sua anima gemella. Erano innamorati. Erano due pezzi della stessa anima. E li invidiavo, da morire.

Invidiavo tutti, perché nessuno di loro era stato privato del sapere. Nessuno di loro privato del proprio amore; di provarne, di sentirlo.

Quasi tutti alla mia età già insieme all’amore della loro vita, ed io non sapevo neppure dove cercarlo. Quasi tutti amavano follemente, ed io non sapevo neppure cosa volesse dire amare.

Tutti sapevano che avrebbero trovato la loro anima gemella, ed io non sapevo neppure se mai avrei amato.

Alle scuole elementari ti spiegavano che si trattava come di un filo rosso, una vecchia leggenda, un filo che ti teneva legato alla tua anima gemella, ed il filo non si spezzava, nulla lo spezzava.

Mi era capitato qualche volta di chiedere ai ragazzi in giro per la scuola se conoscessero qualcuno che aveva il mio nome sul foglio, eppure nessuno lo sapeva.

Un giorno mentre mi aprivo una bustina di patatine, mi vibrò il telefono. Lo tenevo nella tasca dei pantaloni. Così lo sfilai e vidi che mia madre mi aveva lasciato un messaggio.

Diceva che si doveva trattenere a lavoro e che sarebbe tornata nel tardo pomeriggio.

Stavo tornando a casa, lo zaino mi pesava sulle spalle, e quella giornata di sole si stava facendo sentire fin troppo. Ero accaldato ed avevo deciso di fermarmi a comprare un bubble tea, ci avevo preso gusto, era davvero buona quella bevanda lì, prendevo sempre i soliti gusti, e così feci anche quella volta. Era fresco, lo sentii scivolare nella gola, rinfrescandomi.

Una volta a casa, decisi di cambiarmi. Il sole aveva come consumato i miei vestiti e avevo voglia di indossarne di nuovi. Corsi a farmi una doccia ed una volta finito, tirai via un paio di pantaloni dall’armadio. Erano di un marrone chiaro, piuttosto larghi e con qualche tasca qua e là. Non li indossavo da parecchio tempo, forse perché un poco scomodi e fin troppo grossi, ma avevo deciso che quella era la volta buona per metterli. Li infilai e mi affrettai a cercare una maglietta.

Ero tornato da qualche giorno da un campo che aveva organizzato la scuola in una cittadina sperduta nei pressi della Toscana, il mio armadio era vuoto e cercava di dirmi di cercare altrove, e rovistare da qualche altra parte per raccattare una qualche maglia. Passai per il salone, lo sgabuzzino, fino a finire nella camera di mia madre. Non entravo spesso lì, c’erano ancora alcune foto di papà e mi metteva l’angoscia vederlo appeso lì, in un quadruccio sul muro. Le cornici erano di colori cupi, il che non rallegrava per nulla il mio umore, anzi, sembrava come di rivivere il giorno in cui mamma mi aveva detto della sua morte.

Cercai sul comodino tra qualche pila di vestiti, ma nulla. C’erano solo degli abiti, celesti, rosa e qualcuno bianco con delle ricamature in pizzo.

Le aprii l’armadio. Mia madre odiava quando rovistavo tra le sue cose, ma avevo bisogno di una maglietta e magari ne era caduta una da quelle parti.

Salii su una sedia e misi il muso nella parte superiore del suo guardaroba. Alzai lo sguardo e vidi una bustina di plastica. Non esitai a prenderla e non appena me la ritrovai tra le mani, capii che si trattava del foglio. Mi affrettai a tirarlo fuori dalla busta per leggerlo meglio. Reggevo con una mano la parte superiore della sedia così da non cadere, e con l’altra sfilavo via un mucchio di carta. Mentre lo tiravo via, mi sentivo al settimo cielo, consapevole che quel foglio era finalmente tra le mie mani.

Lo presi del tutto, e iniziai a leggere a voce alta.

Ma c’erano i dati di mia madre, così non ci volle molto a capire che il foglio che avevo tra le mani non era il mio.

Mamma aveva lasciato in quella bustina il suo documento. Però il nome dell’anima gemella aveva catturato la mia attenzione, perché non si riusciva a leggere. Sembrava come bianco, magari rovinato con lo scorrere degli anni.

Lo rimisi nella busta. Ammetto che sul momento rimasi dispiaciuto, avrei voluto trovare il mio foglio, ma non me ne feci una colpa, mamma aveva così tanti posti dove poteva tenerlo che sarebbe stato a dir poco assurdo, se, così per caso, lo avessi trovato in quel pomeriggio di giugno, lì, proprio nel suo armadio.

***

Era un altro caldo pomeriggio, era passato ormai qualche giorno da quando avevo avuto tra le mani il documento di mamma. Non gli davo neppure tanta importanza, o perlomeno non gliene diedi fino a quel giorno. Quando camminando a passo lento tra le vie di quella città, il caldo non iniziò quasi a pesarmi sulle spalle. Sembrava di trascinare un mucchio di pietre, così pesanti che alle volte mi fermavo e quasi non riuscivo a proseguire. Portavo invece dietro di me il mio stupido eastpak nero.

Ero sceso alla fermata dell’autobus sbagliata e guardandomi intorno i palazzi sembravano così diversi dai miei. Erano alti, altissimi. Quasi sfioravano il cielo e sembrava accarezzassero le nuvole con mani buone. Realizzati con un intonaco chiaro, pulito.

A passi pesanti cercavo di seguire la mappa che avevo aperto sul gps.

Faceva così caldo che ricordo di essermi persino fermato ad una fontanella per sciacquare i polsi e quasi tirar via l’appiccicume che mi si era creato addosso.

Ma mentre l’acqua scivolava sulle mie mani ed io ero intento a scavare nella pelle per togliere il calore di dosso, vidi un uomo alto, sulla quarantina, che passeggiava tranquillo, ignaro che dall’altro lato della strada, io lo stessi fissando, con un probabile sguardo penetrante e attento.

Ignorai la fontanella, non la salutai nemmeno. Anzi, la lasciali lì, sola, con il suo stesso tintinnio dell’acqua che fuoriusciva da quel vecchio e arrugginito pomello.

Mi precipitai sull’altro lato della via e continuai a scrutare ed esaminare ogni piccolo dettaglio di quell’uomo.

Somigliava a mio padre. Lo stesso sguardo disattento, svogliato.

Mi avvicinai. Lo volevo guardare con maggiore attenzione, così gli andai incontro.

Proseguivo allo stesso ritmo dei suoi passi, qualche metro dietro di lui.

Non avevo potuto parlare di lui da anni, così che alla vista di quell’uomo che gli somigliava rimasi stordito, avevo una strana sensazione al petto, e poi nello stomaco ed ecco che si dilagava in ogni parte di me.

Mi stai seguendo?
No, no, mi scusi, io non la stavo…non è che proprio la stessi seguendo…ecco, non è che volevo…era solo che…-

Mi guardava con un atteggiamento pigro, apatico. Mi fissava le scarpe. E giocava con un portachiavi che teneva stretto tra le mani.

Posso vederlo?
Vedi di andare via – disse scuotendo la testa. Le sue parole erano fredde, e stonavano quasi con quella giornata dove il sole picchiettava sulla pelle e quasi bruciava.
Somiglia a mio papà – presi coraggio e glielo dissi. Non avevo voglia di tornare a casa con il rimorso di non averglielo detto.
Simone per favore – disse con voce sempre più insipida.

E a quelle sue parole qualcosa trapassò il mio petto. Sentii come una lancia conficcata nel cuore. L’uomo che avevo pianto e ricordato e ammirato e amato, ora mi fissava e mi odiava e forse, ora, lo odiavo anche io.

Simone torna a casa – insistette
Mamma aveva detto che eri morto.

Gli si ingrandirono le pupille e le labbra presero un altro colore, ma durò per pochi istanti. Neanche il tempo di realizzare ciò che io gli avevo detto, che già sembrava come se non gli importasse più.

C’è stato il tuo funerale anni fa-
Ho detto che eri un bravo papà, lo pensavo, credo – aggiunsi.

Si voltò e proseguì, non mi guardò più.

I suoi occhi si erano già stancati di me e non ne volevano più sapere, né dei miei capelli ricci, né della strana espressione che probabilmente portavo sul volto in quelle ore di punta, e non voleva sapere neppure di quanto lo avessi amato e di quanto lo avessi poi pianto.

Perché mi ha detto che eri morto? - la mia voce non era più curiosa, forse neanche mi interessava il perché mamma mi avesse mentito. Volevo solo sapere perché il cuore mi si stava congelando e le mani sudate mi tremavano di fianco alle cosce, mentre di tanto in tanto passavo le dita tra i capelli e ricordavo il funerale di quell’uomo come il giorno più brutto della mia intera esistenza.
Chiedilo a lei.
Ma lo sto chiedendo a te.
Ma io non ho più voglia di risponderti.
Perché non ti sei mai fatto vivo? Perché non sei tornato?
Perché io e tua madre avevamo stabilito così.
E avevate stabilito quella finta morte? Quel finto funerale?

Accelerò il passo e non volle che lo seguissi.

Ho una tua foto in camera – aggiunsi - È quella dove siamo tutti e tre insieme e tu e la mamma vi state baciando dietro di me, il giorno del mio settimo compleanno.

Ma lui non si voltò.

Perché non vuoi sapere della foto che ho in camera? - cercavo di stargli dietro ma quasi correva. Mi ignorava.
Mi rispondi o no? Mamma è ancora l’amore della tua vita?
Non lo è mai stata - furono le ultime parole che gli sentii pronunciare. Erano aspre, erano crude, erano parole che non volevo sentire. Mi fermai e lui sparì tra quei palazzi alti e dalle tante finestre.

Me ne tornai a casa, strappandomi via dal viso qualche lacrima e raschiando sulla pelle, cercando di togliermi quelle parole da dosso.

Entrai in casa e sbattei la porta. Iniziai a gridare. Davo pugni al muro e mi infilavo le mani nei capelli. Piangevo. Piangevo lacrime di rabbia, di dolore, di sconforto, di delusione.

Simone cosa sta succedendo?

Lei si affrettò a raggiungermi. Cercava di toccarmi ma la respingevo e le vietavo di avvicinarsi. La chiamai “bugiarda”. E quando mi chiese il perché, le dissi di aver incontrato papà. Le dissi “Una bugiarda. È questo che sei”. Mi tirò uno schiaffo

Non parlarmi così.
Hai organizzato il funerale di papà – le urlai
Quali erano i patti? - chiesi poi, ma non voleva darmi risposta. Così insistetti.
Mamma quali erano i patti?
Simone dai.
Quali erano?
Papà non è il nome sul mio foglio.

Sentii ancora quella sensazione, quella di qualcosa che mi trapassa il petto, un nodo in gola e un dolore allo stomaco.

Non avete… forse non avete controllato bene…forse dovreste rivedere il foglio, insomma, non può essere che…- mettere le parole una di fianco all’altra e farle uscire dalla mia bocca come se non stesse quasi per crollare l’intero mondo, e lo spazio e le stelle e la luna, era un’impresa alquanto difficile.
E qual è il nome sul tuo foglio?

Non mi rispose.

Mi lasciò lì. Solo in quel salotto buio. Una lampada fioca illuminava un mobiletto chiaro. Ma ero rimasto quasi intorpidito, annebbiato. Sentivo freddo. Presi una coperta e mi ci nascosi dentro.

Passò qualche giorno. L’idea di andare a scuola non mi era neppure passata per la mente. Mamma abitava quasi nella stanza di fianco. Non mi parlava più, ed io non sapevo cosa le stesse succedendo, o cosa le era successo. Non sapevo dei loro patti, non capivo perché la verità le pesasse così tanto sulle spalle, e perché la menzogna e le bugie l’attirassero così tanto, quasi come attira una pozza d’acqua in un deserto arido e caldo.

Federico mi chiamava ma gli rispondevo sì e no qualche volta. La maggior parte del tempo me ne stavo rintanato nel letto, mi perdevo tra le scritte e gli inutili post di instagram, osservavo gli altri, osservavo la loro vita, forse perché una volta tanto avevo accettato che la mia non mi piaceva affatto. Menzogne, era questo quello con cui avevo vissuto per tutti quegli anni, e senza che io ne sapessi nulla. Forse non mi ritenevano abbastanza grande e maturo da sapere cosa ci fosse davvero tra loro? O forse erano loro ad essere immaturi e piccoli, nel nascondermi qualcosa di così grande e pesante.

Quel giorno, mentre studiavo l’esistenza altrui, vagando tra le innumerevoli foto che mi comparivano sui social, mi accorsi che Isabella, la ragazza che tenevo sott’occhio da un po’, si era appena lasciata. Era stata con questo tipo altissimo, dagli occhi verdi. Era uno un pochetto strambo, vestiva bene, ma era antipatico e non faceva che dare dello stronzo a chiunque gli si avvicinasse per parlargli. Lo odiavo un po’, presumo. Evidentemente non era lui il nome sul foglio di lei, e quindi entrambi sapevano che sarebbe stata solo una breve storia a tempo. Meglio per me.

Ma non riuscivo a capacitarmi di come Isabella, dall’intelligenza emotiva molto alta, potesse stare con lui, che di capire e amare le persone non ne sapeva proprio nulla.

***

Passarono mesi e mesi, il dolore era rimasto lì con me, ma era più leggero, non mi opprimeva più. Forse pian piano avevo confezionato quel dolore, lo avevo immagazzinato dentro me, e mi ero rifiutato di riportarlo a galla, rifiutato di dargli, di nuovo, il potere su di me. Era sbagliato, ma era semplice, era la via facile, la scorciatoia stupida, che ti dà una mano ma che non serve a nulla, perché quel dolore, prima o poi, torna, torna sempre.

E così, un giorno, quel senso di smarrimento, di bugie, gli inganni, le paure dei miei genitori, il colpo che avevo sentito al petto mentre parlavo con mio padre, bussarono alla mia porta. E li dovetti far entrare. Avrei di gran lunga preferito lasciarli lì, insomma, con i piedi sullo zerbino e le mani in tasca, fuori dal mio portone. Ma dovetti aprire e farli accomodare sul divano offrendogli dell’acqua fresca e chiedendogli come mai fossero lì, anche se lo sapevo perché erano lì, lo sapevo eccome. E la verità è che ai problemi va trovato un posto nel mondo, e se non vogliamo ospitarli nella nostra mente per cercare di risolverli, se abbiamo voglia di cedergli il garage e rinchiuderli lì, aspettando che ammuffiscano, stiamo sbagliando di grosso, perché i problemi non sono una scatoletta di yogurt con una data di scadenza, i problemi sono il coraggio che non ci mettiamo nell’affrontarli, e forse, erano lì nel mio salotto, perché era arrivata l’ora di ascoltarli.

Le cose, intanto, erano cambiate. Federico ed io ci eravamo allontanati, avevamo avuto una brutta lite, mi aveva urlato contro di averlo trascurato e io gli avevo gridato di lasciarmi stare, così aveva preso le cose alla lettera e mi aveva lasciato stare, mi aveva lasciato stare davvero, quando avrei solo voluto averlo a fianco, ma me lo meritavo, ogni tanto le lezioni vanno imparate ed io ero stato così stupido a pensare di poterlo trattare male, che forse allontanarsi era stata la scelta migliore. Mamma non mi parlava, o meglio, mi parlava, ma di cose superficiali, nulla che riguardasse come io stavo realmente, così cercavo di evitarla e parlarci il meno possibile. Papà, invece, era solo un ricordo lontano.

Ma in mezzo a tutto quel dolore che cercavo di metabolizzare e mandare giù, uno spiraglio di luce illuminava la mia vita affinché io potessi guarire dalle cose di cui non parlavo con nessuno. Isabella ed io ci eravamo baciati.

Le avevo scritto e da lì eravamo usciti, ci eravamo conosciuti, amati. Ci eravamo tenuti stretti. E poi mano per mano, mentre salivamo una gradinata, dita intrecciate tra loro e battiti troppo veloci che correvano da un cuore all’altro. Avevo parlato di lei persino a mia madre, e sembrava quasi le fosse interessato vedermi contento nell’essere così innamorato. Le scrivevo delle lettere, tante. Le dicevo come fosse bella, come la sua pelle fosse delicata e come i suoi battiti riempissero i miei respiri, come il suo amore colmasse il mio tempo. Tenevo tutto ciò che mi regalava in una vecchia scatola di scarpe, tenevo separate le lettere dai piccoli regali che mi faceva. Mi riempiva d’amore, un amore buono, un amore genuino e vero. Facevo lo stesso con lei, l’amavo, da morire.

Si?
Sono il nome sul tuo foglio?

Lei sapeva che io non avevo idea del mio nome, ma non le avevo mai chiesto del suo nome. E quando lo feci, me ne pentii. Un silenzio calò tra noi e mi sembrò di star parlando con mia madre, quando quel giorno fece irrompere il silenzio tra noi, e mai più una parola sincera regnò di nuovo tra me e lei.

Non l’ho letto.
Che intendi dire?
Che non so se sei il nome sul mio foglio.
Perché non lo hai letto?
Non voglio saperlo, non voglio conoscere il mio futuro prima che accada. Anzi, sai che ti dico, lo leggerà qualcuno, solo dopo che non ci sarò più.

Era stata piuttosto diretta, sembrava che quelle parole fossero frutto di una riflessione durata anni, forse alle volte le era passato per la mente il desiderio di sapere il nome, ma probabilmente qualche istante dopo le tornava in mente la necessità di non farsi controllare, di sentirsi libera di scegliere.

***

Quel giorno quando tornai a casa ero deciso, ero sicuro: io avrei visto il mio foglio, perché non sarei stato capace di vivere un giorno in più senza sapere se Isabella fosse l’amore della mia vita. Non mi sarei svegliato più domandandomi se un giorno ci saremmo dovuti allontanare, lasciare, dimenticare, anzi, mi sarei svegliato con la consapevolezza di quello che stavo facendo: se stavo amando chi dovevo, se ancora una volta, stavo tenendo tutto sotto controllo, al momento giusto e nel modo giusto.

Corsi da mia madre, le dissi di voler vedere il foglio, non ero più arrabbiato, ero solo un po’ stanco, stanco di aver provato a convincerla, stanco di aver combattuto contro di lei. Ero stanco perché credevo le madri fossero la nostra spalla destra, la mia invece mi aveva distrutto, e aveva provato a dirmi che faceva le cose perché mi amava, ma io non le volevo credere, non le credevo più, e forse mai le avevo creduto. Forse, però, la stavo distruggendo un po’ anche io.

Parlammo, finalmente. Mi volle ascoltare, e anche io assaporai qualche sua parola, fino a riuscire a mandarla giù, nessuna frase più ferma in gola, nessuna che rimbombava nella testa. Insistetti, avevo bisogno di sapere, ma quella volta lei capì, niente urla, solo comprensione. Passò una mano sul mio viso raccogliendo tutte le lacrime che lo stavano bagnando e mi diede un bacio sulla testa, poi andò a prendere il foglio.

Lo avevo tra le mani. Piansi. Lo aprii con un brivido che correva per la schiena. Posai gli occhi sul nome. E le lacrime si fecero più pesanti, più veloci, ero felice. “Isabella Bianchi”. C’era scritto il suo nome, e mai avevo avuto così gioia nel leggerlo. Mai un nome mi aveva dato una sensazione di sollievo più grande. Mai una scritta mi aveva alleggerito il cuore come quella. Isabella, la persona che più amavo, era la persona giusta, era la mia anima gemella, e finalmente lo sapevo.

***

Quindi anche lei aveva il tuo nome, giusto papà?
Eravamo anime gemelle, e se io avevo il suo nome, lei aveva il mio.
Mi guardava con quei due occhi verdi, mi ricordava Isabella.
Sei triste che la mamma è morta?
Sono felice di sapere che ho vissuto la mia vita con lei.
Possiamo aprire il suo foglio?
E perché dovremmo?
Perché sennò non lo apre nessuno.

Mi alzai e andai a prendere il foglio di Isa, lo tenevo in un cassetto nella mia camera. Non lo prendevo in mano da così tanti anni. Edoardo mi chiese se potesse aprirlo lui, ed io annuii.

Sapevo che il nome scritto lì dentro era il mio, eppure ero agitato, forse perché quella storia dei fogli mi aveva scombussolato, da sempre. Aprì la bustina, e tirò fuori questo documento ingiallito con il tempo. I miei occhi corsero sul nome, poi fu come se d’improvviso mi si annebbiasse la vista: erano le mie lacrime, fu come se il mio cuore si fosse fermato per un lunghissimo momento in cui neanche l’aria era entrata dentro, ma solo l’angoscia nello scoprire che non era il mio il nome. Edoardo mi guardò confuso, ma come potevo spiegargli qualcosa che non so neppure io.

Notai però, che la scrittura era diversa, il mio lo ricordavo scritto in un altro modo, ero convinto che tutti fossero stati fatti con la stessa scrittura: il computer, o non so chi altro, avrebbe dovuto scriverli tutti uguali, così mi ci soffermai mentre chiesi a mio figlio di prendere il mio documento. Andò in camera mia, sentii i suoi piedi scalzi correre sul parquet. E quando tornò teneva tra le mani un’altra bustina. Si accomodò vicino a me sul divano e la aprì. Il nome di Isabella era scritto in blu e quello dell’uomo che avrebbe dovuto sposare ed amare quella che era mia moglie, era scritto in nero. Paragonai le scritture perché tutto a un tratto mi sembrò di riconoscere quella con cui era stato scritto il nome sul mio foglio. Incaricai, di nuovo, Edoardo di prendere un vecchio quaderno che tenevamo sulla libreria. Me lo portò impaurito cercando di non farmi troppe domande, così gli passai una mano tra i capelli e lo rassicurai.

Aprii il quaderno e lasciai che la mia mano accarezzasse i fogli, la lasciai sfogliare le pagine. Avvicinai il mio documento, e mi accorsi di come la scrittura fosse identica.

Edoardo mi chiese di chi fosse quel quadernino, sembrava spaventato, ma di certo non stava capendo cosa stesse succedendo. Così alzai il viso, lo guardai negli occhi e glielo dissi. “Era di mia madre”. Un’altra lacrima si affrettò a rigarmi il viso, mettendomi in imbarazzo davanti a mio figlio. Lui mi accarezzò la guancia e un breve “è tutto ok” gli sfuggì dalle labbra, un attimo dopo sembrava in imbarazzo anche lui, così lo strinsi a me e ci tenemmo in quell’abbraccio pieno di cose che avrei voluto dirgli, pieno di cose che avrei voluto dire a sua madre, e di cose che avrei voluto dire alla mia.

***

Sono passati tre mesi, e mentre stavamo traslocando, stamattina, ho trovato una lettera, firmata da mia madre.

“Caro Simone,

non so se avrò mai la forza di darti questa lettera. Un giorno per te sarò solo un ricordo, e non posso permettere di vivere tra i tuoi ricordi come una madre cattiva, una madre che hai odiato, così ti scrivo affinché tu possa sapere la verità, e affinché tu possa amarmi, almeno un po’.

Ho scritto io il nome sul tuo foglio, perché il tuo era un foglio vuoto, ma non spaventarti, lo era anche il mio. Non tutti sono destinati ad essere felici, a trovare la loro anima gemella, almeno questo dicono i fogli. Chi non ha alcun nome sul foglio non è destinato ad essere amato né ad amare. Eppure io ho amato tuo padre perché mi si illuminava il viso non appena lo vedevo e perché mi mancava non appena andava via. Magari penserai che io abbia sbagliato nel non seguire quello che stava scritto sul mio foglio, ma ho passato gli anni più belli della mia vita con tuo padre, e non me ne pento neanche un po’. Ma sapevamo entrambi che non era questo il nostro destino e che doveva essere solo una storia a tempo. Decisi di lasciarlo e feci male a lui, che non ce l’aveva con te, ma con me. E credimi, feci male anche a me e mi abbandonai ad una vita senza amore, se non il tuo. Il tuo amore, ferito dal non avere più un padre, che non ne volle più sapere di noi per colpa mia.

Se io non ero destinata ad alcun amore, tu non saresti mai dovuto nascere, per questo forse anche il tuo foglio era bianco. Ma invece tu sei figlio di un amore non scritto, un amore che ha sfidato il destino, anche se solo per pochi anni.

Ho scritto “Isabella” sul tuo foglio perché ho visto l’amore che provavi per lei, e non avrei potuto sopportare di dare a te una vita senza amore, come è stata la mia. Spero tu e lei siate felici, amatevi. E se riesci, ama un po’ anche me.

Con amore, la tua Mamma”

Riesco persino ad immaginarmela, mentre scrive questa lettera con le lacrime agli occhi, pregando io la possa perdonare, ed amare, e provo disgusto nei miei confronti, perché l’ho giudicata, l’ho odiata, ed ora mi manca, mi manca quando ormai l’ho persa.

Vorrei dirle che ho sbagliato anche io, che la amo, e non solo un po’. Vorrei persino dirle quanto io abbia amato Isabella, quanto sia felice che lei quel giorno abbia preso una stupida penna blu ed abbia scritto su quel foglio il nome della donna che è stata mia moglie.

L’amore ha giocato a fare il protagonista della mia vita tutto il tempo. È stato sul palco durante tutte le scene, e anche quando le luci non erano puntate su di lui, questo non è andato dietro le quinte, non si è seduto, era sempre lì. Era nel rapporto con mia madre, anche quando la detestavo. Nel rapporto con mio padre, persino quando mi voltò le spalle ed accelerò il passo, ignorandomi. L’amore era nel legame che avevo con Federico, anche se le nostre strade si sono separate. Ma soprattutto l’amore era nel sentimento che provavo per Isabella. L’amore era lì, anche quando lei è morta. L’amore era lì anche quando ho scoperto che di amore non ero destinato a provarne, eppure l’ho provato. Eccome se ne ho provato.

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Rompete il sistema prima che il sistema rompa voi. Di regole non esistono, non in questo mondo, non per noi, non per me. E ricordate che l’amore vi trova, sempre. Non fuggite, non pensate di poterne far a meno, nessuno fa a meno dell’amore, neppure l’amore stesso. Ed allo stesso modo, non pensate di rincorrerlo, l’amore è fortissimo a nascondino.

Ognuno di noi merita amore, ma, per provarne, bisogna guarire. Ricucite le vecchie ferite, abbracciatevi, assicuratevi di star bene, ma nel caso una qualche cicatrice resti aperta, non preoccupatevi, l’amore della vostra vita vi coglierà da terra, vi stringerà a sé e vi aiuterà a riparare ciò che di rotto è rimasto in voi. Ma non guardate alla vostra anima gemella come il vostro salvatore. Gli unici che possono salvare la vostra vita siete voi. Non fate come me, non cercate di tenere tutto sotto controllo, non cercate disperatamente qualcuno da amare, perché se proprio c’è qualcuno che merita più di tutti di essere amato, siete voi stessi.

All’amore, che non si perda mai per la via. Che non ci metta troppo a raggiungere i vostri cuori. Ed allo stesso tempo, che non sia troppo frettoloso nel farsi trovare alla vostra porta. All’amore, che alleggerisca i vostri cuori.