XXIII

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA

Franz Liszt - Mefisto (Scelto per il suo impatto perturbante e drammatico, che si intuisce chiaramente dalla "syncopated melody" con scatti inaspettati)

Caspar David Friedrich - Mann und Frau in Betrachtung des Mondes — Caspar David Friedrich, 1824 - Uomo e donna in contemplazione della luna

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga [1]

di mirar queste valli?

Soiglia alla tua vita

la vita del pastore

Sorge in sul primo albore

move la greggia oltre pel campo, e ved

greggi, fontane ed erbe;

poi stanco si riposa in su la sera:

altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco [2] , infermo,

mezzo vestito e scalzo,

con gravissimo fascio in su le spalle,

per montagna e per valle,

per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

al vento, alla tempesta, e quando avvampa

l’ora, e quando poi gela,

corre via, corre, anela,

varca torrenti e stagni,

cade, risorge, e piú e piú s’affretta,

senza posa o ristoro,

lacero, sanguinoso; infin ch’arriva

colá dove la via

e dove il tanto affaticar fu vòlto:

abisso orrido, immenso,

ov’ei precipitando, il tutto obblia.

vergine [3] luna, tale

è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

per prima cosa; e in sul principio stesso

la madre e il genitore

il prende a consolar dell’esser nato.

Poi che crescendo viene,

l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre

con atti e con parole

studiasi fargli core, [4]

e consolarlo dell’umano stato:

altro ufficio piú grato

non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

perché reggere in vita

chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

è lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

e forse del mio dir poco ti cale. [5]

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

che sí pensosa sei, tu forse intendi

questo viver terreno,

il patir nostro, il sospirar, che sia;

che sia questo morir, questo supremo

scolorar del sembiante,

e perir della terra, e venir meno

ad ogni usata, amante compagnia.

tu certo comprendi

il perché delle cose, e vedi il frutto

del mattin, della sera,

del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

rida la primavera,

a chi giovi l’ardore, e che procacci [6]

il verno co’ suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

che son celate al semplice pastore.

Spesso quand’io ti miro

star cosí muta in sul deserto piano,

che, in suo giro lontano [7] al ciel confina;

ovver con la mia greggia

seguirmi viaggiando a mano a mano;

e quando miro in cielo arder le stelle;

dico fra me pensando:

- A che tante facelle? [8]

che fa l’aria infinita, e quel profondo

infinito seren [9] ? che vuol dir questa

solitudine immensa? ed io che sono? -

Cosí meco ragiono: e della stanza

smisurata e superba,

e dell’innumerabile famiglia;

poi di tanto adoprar, di tanti moti

d’ogni celeste, ogni terrena cosa,

girando senza posa,

per tornar sempre lá donde son mosse;

uso alcuno, alcun frutto

indovinar non so. Ma tu per certo,

giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che dell’esser mio frale, [10]

qualche bene o contento

avrá fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,

che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d’affanno

quasi libera vai;

ch’ogni stento, ogni danno,

ogni estremo timor [11] subito scordi;

ma piú perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,

tu se’ queta e contenta;

e gran parte dell’anno

senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,

e un fastidio m’ingombra

la mente; ed uno spron quasi mi punge

sí che, sedendo, piú che mai son lunge

da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

e non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

non so giá dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

- Dimmi: perché giacendo

a bell’agio, ozioso,

s’appaga ogni animale;

me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? -

Forse s’avess’io l’ale

da volar su le nubi,

e noverar le stelle ad una ad una,

o come il tuono errar di giogo in giogo, [12]

piú felice sarei, dolce mia greggia,

piú felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:

forse in qual forma, in quale

stato che sia, dentro covile o cuna,

è funesto [13] a chi nasce il dí natale.

Metrica:

6 strofe libere composte da versi endecasillabi e settenari.

Non è presente uno schema delle rime, che dove presenti sono interne e alla fine di ogni strofa le parole sono in rima, per sottolinearne l'importanza: Immortale; Mortale; Cale; Male; Assale; Natale.

Parafrasi:

Che cosa fai tu, luna, in cielo? Dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e giri, osservando i deserti; e poi ti posi. Non sei ancora soddisfatta di rigirare sempre gli stessi luoghi? Ancora non ti sei stancata, sei ancora desiderosa di guardare queste valli? La tua vita assomiglia alla vita del pastore. Lui si sveglia all'alba; muove il suo gregge per i campi e vede gregge, fontane ed erba; Poi stanco si riposa al venire della sera: in altro non spera mai. Dimmi, o luna: a che cosa serve la vita del pastore, a cosa serve la tua vita a te stessa? dimmi: dove si protende questo mio breve vagare o il tuo corso immortale?

Vecchio bianco, malato, mezzo vestito e scalzo, con un pesantissimo peso sulle spalle, che per monti e per valli, per sassi acuti, ed alta sabbia, e crepe, al vento, nella tempesta, e d'estate, e quando poi gela, corre via, corre, desidera, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più si affretta, senza riposo o ristoro, lacero, sanguinoso; alla fine arriva dove tutta la sua fatica lo ha portato: un abisso orrido, immenso, dove egli precipitando, tutto dimentica. vergine luna, è così la vita mortale.

L'uomo nasce a fatica, e c'è il rischio che si muoia al nascere. L'uomo prova pena e tormento come prima cosa; e nei primi tempi la madre e il padre si preoccupano di consolare l'appena nato. Che poi crescendo, entrambi lo sostengono, con azioni e parole attentamente pensate per fargli coraggio, e consolarlo dello stato umano: un altro compito non hanno i genitori verso i propri figli. Ma perché allora dare alla luce, perché portare in vita, se poi della vita stessa bisognerà consolarlo? Se la vita è una sventura perché continuiamo a produrla? Intatta luna, così è lo stato mortale.

Ma tu non sei mortale, e forse di quel che ti dico ti interessa poco. Ma tu, solitaria, eterna pellegrina, che sei così pensierosa, forse tu intendi, questo vivere terreno, il nostro soffrire, o il sospirare che sia; La morte, questo supremo svanire delle sembianze e il perire della terra, e il perdere ogni quotidiana compagnia che si ha avuto. Tu certamente comprendi il perché delle cose, e vedi il risultato della mattina, della sera, del silenzioso, infinito scorrere del tempo. Tu sai, per certo, a quale dolce amore ride la primavera, a chi è favorevole l'estate, e che vantaggi porti l'inverno con i suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille ne scopri che però al pastore sono nascoste. Spesso quando ti guardo stare così muta sopra al deserto piano, che, con il cielo confina, all'orizzonte; E vedermi viaggiare con il mio gregge mano nella mano; E quando guardo in cielo lo splendere delle stelle; Dico pensando fra me e me: A che cosa servono tante luci? Che forma l'universo, e quel profondo infinito cielo? Che vuol dire questa solitudine immensa? ed io che cosa sono? Così ragiono, con me stesso: e della stanza smisurata e superba, e dell'innumerabile famiglia; Che poi di tanto mettersi all'opera, di tanti movimenti celesti, ogni cosa sulla terra, girando senza riposo, per poi tornare sempre là da dove sono partite; Nessun utilità, nessun risultato riesco a trovarne. Ma tu sicuramente, giovane immortale, conosci tutto. Questo io conosco e sento, che di tutti gli infiniti giri, che del mio essere fragile, qualche bene o contento qualcun altro avrà;

Per me la vita è dolore. O gregge mio che posi, beato te, che la tua miseria, credo, non sai! Quanto ti invidio! Non solo perché giri quasi libera; perché ogni prova, ogni danno, la morte subito dimentichi; Ma più perché mai e poi mai provi noia. Quando ti siedi all'ombra, sopra l'erba, tu sei tranquilla e contenta; e gran parte dell'anno senza noia lo trascorri in quello stato. E provo anch'io a sedermi sull'erba, all'ombra, ma un fastidio ingombra la mia mente, ed ago mi punge, così che, sedendomi, sono ancora più lontano dal trovare la pace o riposo. Eppure non ho altri desideri, e non ho fino ad adesso motivi per piangere. Quello che tu godi o quanto ne godi, non so esprimere; Ma sei fortunata. Ed io godo ancora poco, o gregge mio, ne soltanto di questo mi lamento. Se tu sapessi parlare, io ti chiederei: Dimmi: perché giacendo, comodo, senza fare niente, si appaga ogni animale;

mentre io, se giaccio per riposare, la noia assale? Forse se io avessi le ali per volare tra le nubi, e per contare le stelle ad una ad una, o se fossi come il tuono potendo girare tra le creste dei monti, sarei più felice, dolce mio gregge, sarei più felice, candida luna. O forse è sbagliato il mio pensiero, se guardo la sorte di qualcun altro;infatti forse in qualunque forma, in qualsiasi stato che sia, dentro la stalle o nella culla è funesto a chi nasce il giorno della propria venuta al mondo.

Analisi:

1° strofa: La poesia ha inizio con il pastore che parla alla Luna, che vede in cielo, chiedendole se non si fosse ancora stancata di compiere sempre gli stessi giri e vedere sempre le stesse cose sulla terra. Paragonando in seguito la propria vita da pastore errante e mortale con la vita della Luna immortale

2°strofa: Subentra un "vecchierel bianco", che rappresenta il tempo, che corre, attraverso ogni luogo, in ogni stagione con ogni tipologia di clima, faticando, diventando "lacero, sanguinoso", per concludere infine la sua corsa nel"abisso orrido, immenso" del nulla.

3° strofa: La nascita dell'uomo è l'inizio di tutto il suo male, infatti Leopardi in questa strofa descrive come dal giorno natale, la madre e il padre del neonato lo consolino peril male da loro stessi creatogli per averlo messo al mondo. Questo porta il pastore a chiedersi perché nonostante tutto il male che si provoca ai propri figli alla loro nascita, si continua a far loro tale torto, "perché da noi si dura?"

4°strofa: La Luna vergine, intatta, che certamente comprende la vita mortale e la sventura dell'uomo sulla terra, è la protagonista di questa intera strofa in cui l'astro provoca rabbia e ironia al pastore, che invidia, la vita della Luna che non perisce, che non si stanca, che tutto conosce e vede da lassù, lontana da ogni male.

5°strofa: Il pastore si rivolge ora al suo gregge che ammette di invidiare siccome esso è fortunato a non doversi preoccupare dello "estremo timor" che è la morte perché riesce a dimenticarsene in fretta ed a godersi in pieno, nella semplicità della sua ignoranza, la vita da gregge, nell'ombra sotto un albero senza che nulla turbi le menti. Ciò non succede invece al pastore: nel momento in cui tenta di fermarsi a riposare, il tedio irrefrenabilmente turba la sua mente.

6°strofa: Per concludere, si torna all'inizio, di ognuno di noi, al giorno della nostra nascita. In quest'ultima strofa il pastore si chiede se "forse" per ogni persona, di ogni stato, non sia forse la nascita il giorno peggiore di tutti, dato che veniamo alla luce di una vita misera e destinata alla fine "è funesto a chi nasce il dì natale"

Commento:

In questo canto è chiaramente percettibile la tendenza romantica della poesia filosofica di Leopardi. L'ambientazione è infatti mitica, esotica (l'Asia); notturna e tra i deserti e per questo desolata. Inoltre affronta temi come la morte, il tempo, solitudine, il nulla (Abisso, orrido) e la natura, immancabile. Leopardi firma anche dal punto di vista stilistico rivoluzionario questo testo infatti utilizza elementi classici ad esempio versi settenari e endecasillabi, rime ma senza un preciso schema, in modo nuovo, incorniciate in strofe libere come il pensare, come il porsi dei quesiti.

Il pensiero poetante è evidenziato dalla scelta non casuale da parte di Leopardi, di avere come protagonista della poesia un pastore: infatti lo predilige per utilizzarne ed enfatizzare il significato dell'uomo primitivo, naturale, innocente, puro ma altrettanto turbato dalla noia, dalla infelicità e dalla sua stessa fragilità. Il contrasto che suscita un povero, misero, ignorante pastore che invece di riposare, la notte, filosofeggia con la luna e con il suo gregge, è stato un elemento alla base di questa scelta. Oltre ovviamente alla reale origine del titolo del canto, che Leopardi sceglie e in seguito alla casuale lettura di un articolo di giornale che descriveva il viaggio in Asia di un ricco uomo che incontra dei pastori che "cantoneggiavano" nel mentre dei loro lavori.

Manoscritto autografo di Leopardi del canto notturno di un pastore errante dell'Asia 1829-30 - conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, C.L. XIII.25