L’emigrazione in Belgio continuò e si incrementò dopo la fine della prima guerra mondiale,I lavoratori belgi disposti a scendere nelle viscere della terra erano piuttosto rari, in quanto molti giovani locali erano morti nel conflitto mondiale, e quelli rimasti rifiutavano i lavori pesanti, malpagati e pericolosi , vi era quindi bisogno di molta manodopera Diversi furono i giovani italiani disoccupati che diventarono minatori in Belgio, provenienti, per la maggior parte dal Veneto e dal Friuli-Venezia Giulia, ma si può affermare da tutte le regioni italiane.

Nel 1945 venne stipulato il primo accordo con cui il governo belga si impegnava a dare all’Italia 24 quintali di carbone fossile all’anno per ogni italiano che si recava a estrarlo nelle sue miniere. Secondo lo stesso Accordo gli emigrati dovevano avere “un’età ancora giovane ( non più di 35 anni) e un buono stato di salute”. Per loro un contratto di 12 mesi, “una pala, una piccozza, un casco, una lampada e via verso l’oscurità”.

Inizia così il lungo cammino dell’emigrazione italiana in Belgio, un cammino cosparso di eventi drammatici che culmineranno anche in tragedie. Dato il pessimo trattamento destinato ai minatori.

Ivo Ranghiasci di Sigillo e suo cognato all’ingresso di una miniera Liegi, Belgio - 1951

L’epopea dei lavoratori emigrati iniziava in Italia, gli uffici di collocamento indicavano la possibilità di lavorare nelle miniere.

La propaganda seduceva i giovani con promesse di un lavoro sicuro e ben remunerato. Con annunci scritti su fogli rosa, le autorità incoraggiavano gli italiani a partire per le località minerarie europee.

Per recarsi in Belgio i giovani partivano da Milano dove, erano sottoposti a visite mediche accurate che prevedevano analisi del sangue, radiografie e controlli dentistici. Chi non passava l’ispezione medica, per un qualsiasi problema di salute, a volte anche di lieve entità, veniva rispedito a casa.

La sorveglianza medica sui lavoratori era continua e sistematica e veniva applicata anche negli impianti, infatti, ad alcuni emigranti capitava di essere scartati dalla visita, fatta dalle autorità belghe e di dover ritornare in patria delusi e sconfitti. Questo insieme di attività ispettive e sanitarie funzionò nel garantire che la miniera disponesse sempre di lavoratori perfettamente sani e facilitò l’allontanamento di chi non sopportava il lavoro, ma fallì nel prevenire l’insorgenza di malattie professionali.

Partivano sani e tornavano malati. Il risultato delle pessime condizioni di lavoro fu il ritorno a casa di diecimila emigrati malati di silicosi e tumori ai polmoni.

Non meglio è andata agli italiani che lavorarono in Francia o in Svizzera Una volta superata la visita, i prescelti, firmavano il contratto che prevedeva l’obbligo di fare il minatore per almeno cinque anni, senza poter cambiare lavoro, pena multe e rimpatri.

Saliti sui treni, dopo viaggi estenuanti, gli emigranti venivano fatti scendere in prossimità dei pozzi e smistati nelle varie miniere di destinazione.

A volte, iniziavano a lavorare la mattina dopo, con addosso la stanchezza del viaggio, la nostalgia del proprio paese e famiglia e lo smarrimento per le condizioni disumane che gli si presentavano davanti.

I minatori, una volta arrivati, erano alloggiati negli hangar nazisti utilizzati durante la seconda guerra mondiale per i prigionieri sovietici.

Questi venivano chiamati “cantine” e consistevano in grandi stanze dentro capannoni di proprietà delle società minerarie, con bagno e cucina in comune, gestite da famiglie del luogo o da altri minatori e il cui costo, piuttosto elevato, veniva detratto direttamente dallo stipendio.

Nel prezzo era compreso il vitto, scarso e di bassa qualità ( caffè ,latte, pane e uova), un letto con materasso e coperte e i primi vestiti per scendere in miniera. Abramo Seghetto “sopravvissuti per raccontare” 1993

Non sempre era facile trovare una sistemazione esterna alla miniera, a causa di una certa diffidenza degli indigeni nei confronti degli stranieri. Non era inusuale trovare sulle porte delle case in affitto la scritta “ Etrangers s’ abstenir”, ossia, “niente stranieri”.

La situazione cambiò quando i belgi si accorsero che gli italiani pagavano bene e potevano costituire un buon profitto per gli affari.

In seguito, i minatori che decisero di trasferirsi definitivamente con le mogli e i figli, chiesero la casa alle società minerarie che avevano a disposizione alcune “villette” (camera e cucina) per le famiglie.

“Quasi nessuno dei migranti si aspettava luoghi così spaventosi, mansioni così pericolose , la maggior parte delle volte si iniziava subito a scendere nei pozzi, senza sapere che fare e come fare, senza nessun consiglio se non quello dei minatori più esperti. Solo in un secondo momento, vista la quantità di infortuni tra i nuovi arrivati, furono previsti due giorni per la visita della miniera e l’obbligo di far pratica, come manovale, per almeno sei mesi. I manovali però guadagnavano molto poco e venivano pagati a ore.

La mansione più remunerativa, ma anche quella più pericolosa era lavorare in “taglia”, ossia estrarre il carbone dalle cave. Queste potevano essere di qualsiasi altezza, anche solo di 40 centimetri, cosicché si doveva lavorare sdraiati dentro i cunicoli.

Gli infortuni erano all’ordine del giorno perché la sicurezza dipendeva essenzialmente dall’attenzione dei minatori stessi.

I lavori più pericolosi erano quelli più pagati: per sistemare le gallerie con esalazioni di gas grisou, per esempio, due ore di lavoro erano pagate come due intere giornate, ma i cartelli con i teschi appesi alle pareti davano l’idea del rischio folle che si poteva correre.

Solo dopo la tragedia di Marcinelle furono distribuite le maschere antigas.

Prima di allora, la dotazione prevedeva una mascherina contro la polvere, ma questa si intasava dopo pochi minuti a causa del sudore misto a carbone e quindi veniva sostituita dai minatori con un metodo più efficace, il tabacco.

“Ciccando” tabacco si alleggeriva un po’ il sapore disgustoso della polvere di carbone nella bocca.

Solitamente si lavorava in profondità, per otto ore, in cunicoli stretti dove lo spazio era diviso tra macchinari, minatori e martelli pneumatici.

La temperatura a quelle profondità era altissima e veniva controllata facendo arrivare aria fredda dall’esterno, ma comunque rimaneva un ambiente infernale con temperatura a 45 gradi. ( http://www.speakers-corner.it/rizzoli/stella/home.htm.)

In queste condizioni di lavoro bisognava comunque stare sempre attenti: un occhio al lavoro degli altri, per non essere schiacciati da pietre che cadevano mentre venivano estratte con i martelli pneumatici, un occhio ai carrelli pieni di carbone, che venivano spinti a grande velocità.

Gli ascensori erano solitamente due, collegati tra loro e potevano contenere anche cento persone. Mentre uno saliva l’altro scendeva “così quando cento uomini bianchi scendono precipitosamente nel buco orrendo, cento uomini neri, salgono esausti all’aria aperta e alla luce del sole”.

Dal racconto di Carlo Dolci, minatore casalasco.
Intervista tratta da, Ettore Gialdi, op.